martedì 11 ottobre 2011

Pina 3D

Wenders (ri)cerca Pina Bausch e la trova. l’emozione passa così intatta e vivificata dalla danza allo schermo



Locandina Pina 3D
Nel 1985 Wim Wenders vede per la prima volta “Café Müller”, 
nel quale la coreografa tedesca capofila del teatrodanza, Pina Bausch, 
danza per 40 minuti insieme ai suoi ballerini sulla musica di Henry Purcell. 
Ne nasce un’amicizia lunga vent’anni e il progetto di un film insieme, che comincia a concretizzarsi 
nel 2008, con la scelta del repertorio da filmare (‘Café Müller’, ‘Le Sacre du Printemps’, 
‘Vollmond’ and ‘Kontakthof’) ma s’interrompe un anno dopo, con la morte di cancro della stessa Bausch. 
La familiarizzazione con la tecnica del 3D fornisce a Wenders la spinta per girare il film, 
il tassello mancante per completare l’opera.
Tanti erano già gli indizi, infatti, di un incontro natutrale e proficuo tra il cinema di lui e il 
lavoro di lei: dalla genesi del Tanztheater negli anni Settanta, 
dentro un momento di forte messa in discussione della cultura precedente, 
di reivenzione necessaria e di assoluta libertà creativa;
 e l’ispirazione neorealista ma profondamente psicologica, per cui i gesti nascevano dal 
contributo personale dei ballerini, interrogati sul loro vissuto e chiamati a scrivere una lingua nuova con il corpo, la parola, l’abito “civile”
anziché il costume di scena, la nudità. 
E poi, ancora, il viaggio goethiano alla scoperta dei luoghi del mondo e la fortissima connotazione pittorica
degli allestimenti creati da Pina Bausch: di tutti, l’incontro probabilmente più ravvicinato con la ricerca di Wenders.
In Pina e per Pina, il regista tedesco ritrova dunque la materia che sa impastare, 
l’emozione e l’energia che mancavano da tempo al suo cinema (fatta salva l’ispirata eccezione di 
Portando i componenti dell’ensemble di Wuppertal in locations industriali o naturali 
(che evocano i migliori scatti del Wenders fotografo) 
dà nuova vita ai passi di danza, per contrasto o più spesso in ragione di una tensione condivisa, 
che invoca e provoca il limite, delle forze umane e naturali, e spazza via dal progetto
ogni aura mortifera o agiografica.
Completano il film le interviste alle persone che hanno ballato con Pina,
uomini e donne, nuove leve e suoi coetanei, provenienti da tutto il mondo. 
Wenders li riprende in silenzio e associa la voce in over, come a voler estrapolare i loro pensieri, 
in un movimento circolare che rincorre la loro sete di carpire ciò che la maestra, 
tanto amata e temuta, 
pensava di loro o sentiva danzando, 
dietro un silenzio che difficilmente interrompeva, se non per ammonire: “continuate a cercare”. 
Lei, che un suo stretto collaboratore ricorda 
con l’immagine della sua casa, come un grande attico pieno di cose, 
si nutriva dei gesti e delle anime dei suoi danzatori,
restituendo loro un’immagine di rara forza, che cozzava col suo
corpo scheletrico e il volto esangue. 
Wenders stesso sembra essersi cibato di quella forza, 
averne ingurgitato un boccone che gli è entrato in circolo e ce lo ha restituito più “in vena” 
che mai.

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